domenica 13 ottobre 2013

Dimenticata

  • Cercò di afferrare la biro sul tavolo, allungando lentamente il braccio, provando a staccare la schiena dalla sedia, non c’era fretta. Ci aveva provato molte volte nell’ultimo mese, non era mai riuscita a farlo, questa volta però era diverso. Aveva appoggiato la settimana enigmistica sulle ginocchia, le piaceva farla ogni domenica, dopo il pranzo nella sala comune, indovinava ormai quasi tutte le risposte, la sua mente era ben allenata, non c’era un nome di un cantante o una capitale dei paesi africani che le sfuggisse. Quando non riusciva a pescare subito la parola che le serviva, dall’enorme dizionario della sua testa, volgeva lo sguardo verso le nuvole davanti a lei, o gli alberi, fuori dalla finestra, e mentre sembrava fissare il vuoto, il cielo, faceva scorrere uno dopo l’altro nomi, definizioni, sogni e ricordi. La poteva ancora vedere, piccola, stesa con il culetto morbido sulle sue ginocchia e la testolina tra le sua braccia, aveva appena macchiato con il latte il suo lungo vestito rosa pesca con i ricami corallo, in una mattina di marzo, quando ancora non lavorava ed a riempire la sua giornata c’era solamente lei. Aveva voluto svegliarla, quella mattina, per sentirsi meno sola e con l’ingenua idea di poterci giocare un po’. Non aveva smesso di piangere un attimo, da quando le aveva accarezzato dolcemente la testa nella culla, non era servito rimetterla dentro, dirle di tornare a dormire, sussurrarle una canzoncina. Non svegliare mai un neonato, era una cosa che avrebbe dovuto ricordarsi, dopo tutti quei libri che aveva letto sull’allattamento, sull’allevamento dei piccoli, eppure aveva fatto piangere Alice, eppure ora non si ricordava la parola al sette verticale: “liquido prodotto dalla madre prima del latte”. Nella camera accanto alla sua qualcuno stava urlando, probabilmente era Paolini, stanza ventitre, sua moglie se ne sarà appena andata, aveva pensato, portandosi la penna alla bocca. Subito dopo averla trasferita in quel reparto, le infermiere non avevano mancato di informarla dei vari pettegolezzi di corridoio, chi era venuto da poco a mancare e chi poteva contare i giorni all’indietro. Ma la cosa non le interessava particolarmente, non sarebbe rimasta li ancora per molto. Con un gesto lento e confuso si passò la mano tra i capelli grigi e radi e si asciugò i lati della bocca con il fazzoletto. Sentiva che ormai mancava poco, appoggiò la rivista sul letto vicino e girò faticosamente le rotelle della sedia per avvicinarsi alla finestra, quanto era invecchiato il suo viso dall’ultima volta? Aveva smesso di contarsi le macchie sulle mani, e a volte dimenticava anche di tagliarsi le unghie, anche se ora certo, erano le infermiere a dimenticarsi di farlo per lei. Aveva pensato di nascondersi, pensiero davvero infantile, per un attimo, come al primo appuntamento con Lorenzo, tanti anni prima, voltarsi e scappare per la vergogna. Ora poteva vedere bene le persone dall’alto, che entravano nell’edificio, se si sporgeva un po’, ignorando il dolore alla gamba che dopo quella brutta caduta non aveva fatto altro che diventare sempre più forte. Eccola, la moglie di Paolini, con la testa bassa, il cappellino rosso e la pelliccia comprata ancora negli anni sessanta, allontanarsi velocemente, da quella casa di disperazione e abbandono, era finita finalmente la giornata della visita al marito, era libera dall’angoscia, per altri sette giorni. Era una questione di ore, se lo sentiva, e l’avrebbe rivista. Questa volta non avrebbe potuto semplicemente rimproverarla, come quando tornava a casa tardi la sera e non le faceva sapere niente, si ricordava bene quei pochi minuti di ritardo, che per la paura sentiva come ore. Adesso erano diventati anni, e non solo nella sua testa. Magari non sarebbe salita fino alla stanza ventiquattro e come con una firma falsa su un’insufficienza avrebbe lasciato il suo consenso all’operazione e sarebbe sparita di nuovo. Ma per quella strada, per quella porta doveva passare, e lei l’avrebbe rivista, dall’alto. Capelli castani chiari, passo veloce, l’aveva riconosciuto, lo stesso di quando tornava a casa da scuola e non vedeva l’ora di andare in camera, e quasi non salutava. Aveva un cappottino azzurro, il suo colore preferito, gli stivali neri, probabilmente aveva i tacchi. Ti prego, alza lo sguardo, ti prego amore guardami. Era entrata, passata velocemente. Ora sarebbe arrivata, ora davvero mancava poco. Cercò di sistemarsi come meglio poteva il fazzoletto alla gola, un misto di gioia ed inquietudine le rendeva amara la bocca e sentiva il cuore sfracellarle il petto troppo fragile. Vedeva Alice percorrere le scale, salire l’ascensore, e poi, e poi entrare. Ciao mamma! Come stai? Avrebbe detto. Magari le avrebbe dato un bacio, e lei si sarebbe vergognata della sua guancia grigia e flaccida, la bambina le avrebbe raccontato dei suoi figli, della Francia, di suo marito, e lei l’avrebbe potuta rivedere ragazzina, con gli occhi sognanti mentre le sorrideva raccontandole cosa aveva regalato al suo fidanzatino. O forse il senso di colpa per gli anni passati nell’indifferenza l’avrebbero fatta piangere e si sarebbe accasciata su di lei per asciugarsi le lacrime, come quando lui l’aveva lasciata, e lei si sarebbe vergognata delle ginocchia malate e tremanti. Stirò le pieghe della gonna. Perché non era ancora arrivata? Forse non portava più i capelli corti, dopo tutti questi anni forse le erano cresciuti, suo marito le aveva forse chiesto di smettere di tagliarli, era quel tipo d’uomo, un Francese, magari la tinta aveva scurito i capelli, certo ora saranno di sicuro cominciate a spuntare le prime ciocche bianche, e lei le avrà di sicuro coperte, forse la gravidanza non le aveva più permesso di camminare veloce con i tacchi e portare cappottini stretti, due figli, aveva avuto due figli. Rigirò la sedia a rotelle e con fatica tornò alla finestra. Non era lei.