domenica 27 ottobre 2013

La storia di un Bo

Questa è la storia di un Bo che voleva essere qualcosa: un uomo, un gatto, un fiammifero, una casa, un telegiornale, uno scoiattolo, una scimmia o qualcos'altro. Ma era nato come un Bo ed era sempre rimasto un Bo. Dio l'aveva creato come un essere insignificante, quando non sapete cosa rispondere ad una domanda difficile interviene lui, questo è il suo lavoro. Era un essere ignorante, non sapeva scrivere, parlare, mangiare, cantare. non sapeva fare assolutamente niente. Non aveva amici, genitori o animali da compagnia. 
Un giorno decise di chiedere a Dio di essere qualcuno. Purtroppo riusciva solo a dire "Bo".  Diresse lo sguardo verso il cielo e iniziò a pregare: bo bo bo bo bo bo bo bo. Ma fu il sentimento con cui lo diceva, la sua convinzione e la sua tristezza a risvegliare lo sguardo impietosito del potente che commosso da quel lamento senza senso gli chiese: cosa è successo, perchè ripeti quella parola senza senso? Il Bo non sapeva cosa rispondere allora rimase zitto, non sapeva piangere. Quell'essere di cui nessuno sapeva l'esistenza e che nessuno considerava si rivolgeva ora al sommo dei potenti farneticando la parola dell'ignoranza. Non era neanche capace di rendersi conto della sua fortuna, pochissimi prima di lui erano riusciti a parlare con il potente, con la somma sapienza. Forse erano tutti troppo presi dal lavoro, dai figli, dalle banalità quotidiane.  Il Bo nel suo cuore sperava che Dio lo capisse e che lo ascoltasse, sperava che gli desse la possibilità di essere qualcuno. Fu allora che l'altissimo lo guardò dall'alto del cieli immortali e con un tocco lo trasformò in un uomo. 

Dopo pochi mesi il Bo era un famoso imprenditore, aveva un nome e un cognome, due figli, una moglie e una vita che credeva fosse felice. Qualche volta però, la sera, solo nel suo lettino, guardava il cielo fuori dalla finestra, voleva chiamarlo, voleva ringraziarlo. Ma il potente era occupato a osservare gli esseri insignificanti che popolavano il pianeta, che volevano essere qualcuno. Dopo poco tempo il Bo iniziò anche a dubitare di essere mai stato un Bo e a chiedersi se questa immensa saggezza esistesse e fosse mai esistita.  

Chirurgia estetica: giusto o sbagliato?


Il 17 ottobre sono state proposte per la prima volta le linee guida per la chirurgia estetica, l'operazione è stata fatta dall'associazione Italiana di chirurgia plastica estetica. Ora ci sono raccomandazioni sviluppate da medici sulla base degli interventi più praticati. Sono punti di riferimento non solo per i chirurghi ma anche per i pazienti e per i tribunali, che possono verificare se l'iter percorso dal medico è corretto. È un passo importante per quella che è diventata una branca della medicina sempre più utilizzata e che ha acquistato sempre maggiore importanza nella nostra società. Come si può vedere dai numerosi programmi televisivi che ogni giorno parlano di operazioni pazzesche per migliorare l'aspetto fisico, è ormai diventata una cosa naturale per chi ha un brutto naso, o per chi ha un seno piccolo ricorrere ad interventi chirurgici. “Ma non capisco perchè non si rifà il naso, fossi in lei io lo farei”, normale discussione con la propria amica in autobus, quando, mentre si fissano tutte le persone che salgono, lo sguardo cade su una bella ragazza il cui naso, no, proprio la rovina.
Se è così facile correggere un difetto, è strano non farlo. Se il disegno esce sproporzionato allora si cancella e si aggiusta, se l'edera in giardino cresce storta, la si taglia in modo che raggiunga perfettamente il margine della ringhiera, se la pasta è poco salata, si aggiunge sale al sugo, e così, se ho le tette piccole, infilo due palloncini sotto pelle ed ecco fatto! Niente di più semplice.
Insomma, ora abbiamo tutto quello che potremmo desiderare, possiamo assomigliare alle star del cinema, o anche alle un po' più squallide vallette della tv se le preferiamo, abbiamo il potere di correggere con un bisturi quello che madre natura ha sbagliato. Pazzesco, siamo a un passo dalla perfezione, con il pagamento di un piccolo contributo possiamo finalmente scegliere il nostro aspetto esteriore, essere, non avendo difetti, sicuri di noi, nella conquista del partner, nella vita.
Non c'è davvero spazio per il dibattito, la chirurgia estetica è una scoperta eccezionale, una vera benedizione. Sarebbe d'accordo il cantautore 33enne Toby Sheldon che ha appena finito un iter di 5 anni di interventi, dal costo di 100 mila dollari per diventare come il suo idolo Justin Bieber.
Non sarebbe invece d'accordo, rimanendo in tema di cantanti, la povera Lady Gaga che cantava “Sono bellissima a modo mio perchè Dio non commette errori”(Born this way), e non è l'unica a pensarla così. Sono molto diffuse le critiche al cambiamento di aspetto, tralasciando i più estremisti che basandosi su concetti religiosi la giudicano un'offesa, c'è chi si basa sulle numerose persone diventate schiave del bisturi, che continuano a trovare difetti e non essere mai soddisfatte del proprio aspetto e che finiscono per rovinarsi. È il caso di Carla, una ragazza di 22 anni che ha speso fino ad oggi 27mila euro in diversi interventi di chirurgia estetica. All'età di 18 anni le è stato regalato un seno nuovo e da allora non ha mai smesso di trovarsi difetti da voler sistemare. Ora si dichiara pentita e vorrebbe tornare a come era prima delle operazioni. Partendo dal presupposto quindi che chi ricorre alla chirurgia estetica sia qualcuno fondamentalmente insicuro, dobbiamo supporre che questa non sia né la cura né una soluzione, ma si tratti solo della ricerca ad una bellezza in realtà irraggiungibile. Fortunatamente non per tutti è così, devo infatti rendere giustizia a chi conosco personalmente e che non sarebbe contento di leggere queste righe, che si è accontentato di una sola operazione e ne è rimasto soddisfatto. A volte una sola operazione può cambiare in meglio la nostra vita, a volte davvero tutta la nostra insicurezza si concentrava su un solo difetto, e tolto quello ci si sente meglio con se stessi, con la speranza che i nostri problemi di insicurezza non ci portino a riconoscere altri difetti che bisogna assolutamente cambiare. La cosa importante è essere salvi da tutti quei problemi come il non riconoscersi più dopo l'operazione o non rimanerne soddisfatti e odiare ancora di più il nostro aspetto.
Anche il non essere soddisfatti dell'operazione è un incombenza non trascurabile. L'1ottobre la rivista Vogue ha pubblicato uno studio compiuto su un campione di 400 persone in cui 30% hanno fatto ritorno sotto il bisturi per correggere i danni causati dalle precedenti operazioni. Il più delle volte perché compiute da mani inesperte, ma sistemare le operazioni non è sempre facile, bisogna ricorrere ai migliori chirurghi per cancellare tutto e ricominciare da zero.
E tutto questo per cercare di avvicinarci ad un ideale di bellezza proveniente da chi sa dove e chi sa quando. “La chirurgia estetica è un passo verso la fine dell'individualità” lo insegnano i più popolari telefilm americani come Glee o lo dice anche lo scrittore Tommaso Ariemma nel libro “Contro la falsa bellezza” in cui spiega come dietro gli interventi ci sia una falsa idea di bellezza come omologazione, un odio verso se stessi che la società dello spettacolo instilla dentro di noi. Volerci omologare in questo modo ci porterà forse, in un'idea un po' futuristica, a diventare una massa di bambole di plastica con sulla chiappa il marchio di un chirurgo plastico miliardario o forse riusciremo sempre a trovare la bellezza nei difetti o in ciò che ci rende particolari e diversi gli uni dagli altri. E volendo citare per una volta qualcuno di un po' più colto di un cantante pop, chiamo in causa Hume e la sua citazione forse erroneamente attribuitagli “La bellezza è negli occhi di chi guarda”. Poi si spera che a guardare non sia un giornalista di qualche sconosciuta rivista di equitazione seduto al bancone della giuria di Veline.  

domenica 13 ottobre 2013

Dimenticata

  • Cercò di afferrare la biro sul tavolo, allungando lentamente il braccio, provando a staccare la schiena dalla sedia, non c’era fretta. Ci aveva provato molte volte nell’ultimo mese, non era mai riuscita a farlo, questa volta però era diverso. Aveva appoggiato la settimana enigmistica sulle ginocchia, le piaceva farla ogni domenica, dopo il pranzo nella sala comune, indovinava ormai quasi tutte le risposte, la sua mente era ben allenata, non c’era un nome di un cantante o una capitale dei paesi africani che le sfuggisse. Quando non riusciva a pescare subito la parola che le serviva, dall’enorme dizionario della sua testa, volgeva lo sguardo verso le nuvole davanti a lei, o gli alberi, fuori dalla finestra, e mentre sembrava fissare il vuoto, il cielo, faceva scorrere uno dopo l’altro nomi, definizioni, sogni e ricordi. La poteva ancora vedere, piccola, stesa con il culetto morbido sulle sue ginocchia e la testolina tra le sua braccia, aveva appena macchiato con il latte il suo lungo vestito rosa pesca con i ricami corallo, in una mattina di marzo, quando ancora non lavorava ed a riempire la sua giornata c’era solamente lei. Aveva voluto svegliarla, quella mattina, per sentirsi meno sola e con l’ingenua idea di poterci giocare un po’. Non aveva smesso di piangere un attimo, da quando le aveva accarezzato dolcemente la testa nella culla, non era servito rimetterla dentro, dirle di tornare a dormire, sussurrarle una canzoncina. Non svegliare mai un neonato, era una cosa che avrebbe dovuto ricordarsi, dopo tutti quei libri che aveva letto sull’allattamento, sull’allevamento dei piccoli, eppure aveva fatto piangere Alice, eppure ora non si ricordava la parola al sette verticale: “liquido prodotto dalla madre prima del latte”. Nella camera accanto alla sua qualcuno stava urlando, probabilmente era Paolini, stanza ventitre, sua moglie se ne sarà appena andata, aveva pensato, portandosi la penna alla bocca. Subito dopo averla trasferita in quel reparto, le infermiere non avevano mancato di informarla dei vari pettegolezzi di corridoio, chi era venuto da poco a mancare e chi poteva contare i giorni all’indietro. Ma la cosa non le interessava particolarmente, non sarebbe rimasta li ancora per molto. Con un gesto lento e confuso si passò la mano tra i capelli grigi e radi e si asciugò i lati della bocca con il fazzoletto. Sentiva che ormai mancava poco, appoggiò la rivista sul letto vicino e girò faticosamente le rotelle della sedia per avvicinarsi alla finestra, quanto era invecchiato il suo viso dall’ultima volta? Aveva smesso di contarsi le macchie sulle mani, e a volte dimenticava anche di tagliarsi le unghie, anche se ora certo, erano le infermiere a dimenticarsi di farlo per lei. Aveva pensato di nascondersi, pensiero davvero infantile, per un attimo, come al primo appuntamento con Lorenzo, tanti anni prima, voltarsi e scappare per la vergogna. Ora poteva vedere bene le persone dall’alto, che entravano nell’edificio, se si sporgeva un po’, ignorando il dolore alla gamba che dopo quella brutta caduta non aveva fatto altro che diventare sempre più forte. Eccola, la moglie di Paolini, con la testa bassa, il cappellino rosso e la pelliccia comprata ancora negli anni sessanta, allontanarsi velocemente, da quella casa di disperazione e abbandono, era finita finalmente la giornata della visita al marito, era libera dall’angoscia, per altri sette giorni. Era una questione di ore, se lo sentiva, e l’avrebbe rivista. Questa volta non avrebbe potuto semplicemente rimproverarla, come quando tornava a casa tardi la sera e non le faceva sapere niente, si ricordava bene quei pochi minuti di ritardo, che per la paura sentiva come ore. Adesso erano diventati anni, e non solo nella sua testa. Magari non sarebbe salita fino alla stanza ventiquattro e come con una firma falsa su un’insufficienza avrebbe lasciato il suo consenso all’operazione e sarebbe sparita di nuovo. Ma per quella strada, per quella porta doveva passare, e lei l’avrebbe rivista, dall’alto. Capelli castani chiari, passo veloce, l’aveva riconosciuto, lo stesso di quando tornava a casa da scuola e non vedeva l’ora di andare in camera, e quasi non salutava. Aveva un cappottino azzurro, il suo colore preferito, gli stivali neri, probabilmente aveva i tacchi. Ti prego, alza lo sguardo, ti prego amore guardami. Era entrata, passata velocemente. Ora sarebbe arrivata, ora davvero mancava poco. Cercò di sistemarsi come meglio poteva il fazzoletto alla gola, un misto di gioia ed inquietudine le rendeva amara la bocca e sentiva il cuore sfracellarle il petto troppo fragile. Vedeva Alice percorrere le scale, salire l’ascensore, e poi, e poi entrare. Ciao mamma! Come stai? Avrebbe detto. Magari le avrebbe dato un bacio, e lei si sarebbe vergognata della sua guancia grigia e flaccida, la bambina le avrebbe raccontato dei suoi figli, della Francia, di suo marito, e lei l’avrebbe potuta rivedere ragazzina, con gli occhi sognanti mentre le sorrideva raccontandole cosa aveva regalato al suo fidanzatino. O forse il senso di colpa per gli anni passati nell’indifferenza l’avrebbero fatta piangere e si sarebbe accasciata su di lei per asciugarsi le lacrime, come quando lui l’aveva lasciata, e lei si sarebbe vergognata delle ginocchia malate e tremanti. Stirò le pieghe della gonna. Perché non era ancora arrivata? Forse non portava più i capelli corti, dopo tutti questi anni forse le erano cresciuti, suo marito le aveva forse chiesto di smettere di tagliarli, era quel tipo d’uomo, un Francese, magari la tinta aveva scurito i capelli, certo ora saranno di sicuro cominciate a spuntare le prime ciocche bianche, e lei le avrà di sicuro coperte, forse la gravidanza non le aveva più permesso di camminare veloce con i tacchi e portare cappottini stretti, due figli, aveva avuto due figli. Rigirò la sedia a rotelle e con fatica tornò alla finestra. Non era lei.

giovedì 10 ottobre 2013

Video: Berlusconi a Brescia, intervista 11 maggio 2013


 

Vendere Rose per Vivere




Abdul viene dal Bangladesh, è in Italia da quasi due anni per cercare lavoro. È molto gentile, gira per le strade di Brescia e si avvicina a chiunque incontra per vendere una rosa. Non è insistente, se si sente rispondere no, annuisce e continua il giro. Non parla molto bene l'italiano, ma ha raccontato della sua famiglia ancora in patria, i cinque figli che aspettano i suoi soldi, lui dice, destinati allo studio. Sono circa cinque euro a serata, tra accendini, rose e braccialetti. E dopo avergli dato due euro per una rosa, lui stringe la mano, sorride e si allontana. Se ne possono incontrare fino a sei a serata se si va in un bar a prendere un aperitivo e poi si fa una passeggiata. Quello che più ci si chiede è se queste persone riescono a guadagnare abbastanza, se valga la pena di sentirsi trattare da lebbrosi e con sgarbatezza da tutti. Anche Amir viene dal Bangladesh, è arrivato in Italia un anno fa, ha fatto la scelta di lasciare una moglie e due figli piccoli perchè non riusciva a trovare lavoro nel suo paese. "Avevo sentito che qui c'era lavoro e ho voluto tentare" mi dice mentre cerco due euro per comprare la mia seconda rosa della serata. Amir non ha studiato, ma suo figlio maggiore, che è venuto anche lui in Italia e fa la stessa professione, ha frequentato la scuola per otto anni. Capisco a fatica quello che dice, parla a voce bassissima e mi lascia scegliere il prezzo della rosa, gli do due euro e lui mi ringrazia stringendomi la mano. Lo rincontro poco dopo che cerca di trattare con una coppia a Contrada del Carmine, che crede che due euro per una rosa siano troppi. 
Un'ordinanza dell'amministrazione locale ha imposto una multa di 160 euro per i venditori di rose, la decisione è sorta dopo i lamenti dei fioristi da cui vanno a comprare le rose all'ingrosso per rivenderle la sera alle coppiette. Rakesh viene dal Pakistan e ha un guadagno di circa sei euro a serata, è in Italia da quattro anni e ha lasciato in Pakistan una moglie e una figlia molto piccola. Là in patria non stanno affatto bene, mi racconta mentre fingo di cercare dei soldi. Non c'è lavoro e la gente deve andarsene. In Italia il tasso di immigrazione è aumentato, nel 2003 si registrava una presenza di 1,5 milioni di stranieri, mentre oggi sono il 7,9% della popolazione italiana. Sono quindi una forza lavoro non indifferente che va considerata come indispensabile, e non si parla più dei venditori ambulanti, ma di giovani lavoratori regolari. 
Il mio amico pakistano si deve subito allontanare dopo aver guadagnato i suoi due euro, un uomo che sembra essere il suo datore di lavoro lo richiama per contare i soldi e per indicargli una strada dove vendere. È sempre più difficile cercare di capire la loro vita, che si sbroglia tra un continuo bisogno di soldi e un tentativo di sfuggire alle sanzioni che azzererebbero mesi di lavoro. A Treviso la polizia municipale ha iniziato a girare in borghese per le vie del centro storico per beccare i venditori di rose, le sanzioni hanno raggiunto i 3.000 euro. Ma è meglio non pensare e ignorare l'umana difficoltà della loro vita e togliersi l'amaro in bocca con un sorso di Pirlo quando finalmente il venditore di rose si allontana e ormai è diventato facile ignorare quel leggero dispiacere quando si ha fatto finta di non vederlo o sentirlo mentre ti sventolava sotto il naso un mazzo di rose rosse. Spesso capita di dover rispondere male, ma non ci si può far niente, quando uno insiste superando i limiti della buona educazione è l'unica cosa che rimane da fare. E quando sono insistenti non dispiace neanche di non aver buttato due euro in una rosa ma anzi, si prova un piccolo senso di soddisfazione, come dopo aver spiaccicato una zanzara che ci stava pungendo la coscia. Ma una cosa è vera, non possiamo fare molto per aiutarli e mangiando una pizzetta ci accontentiamo di una piccola riflessione sull'ingiustizia del mondo e di quanto noi che stiamo seduti al tavolo ogni sera siamo fortunati.