“Ballata
di uomini e cani” è il titolo dell'ultima opera di Marco Paolini,
che nel sottotitolo specifica il suo omaggio allo scrittore per
ragazzi Jack London, che come lui ricorda nelle prime battute,
affronta spesso tematiche che hanno poco a che fare con il mondo
dell'infanzia. Siamo quelli di “zanna bianca” o quelli de “il
richiamo della foresta”? La risposta non è importante perché le
tre storie raccontate nel corso del suo monologo hanno poco a che
fare con i due romanzi dell'autore inglese, se non per il fatto che
affrontano il tema del rapporto tra un cane e il suo padrone.
Non
si tratta neanche delle solite storie melense su quanto il cane sia
il migliore amico dell'uomo e su quanto ci voglia bene, non racconta
del cagnolino fragile ma con un cuore coraggioso che si butta nel
torrente per salvare il suo padrone dall'annegamento. Le storie che
il genio del teatro racconta sono di odio, di rancore e trattano
della continua guerra tra l'uomo e la natura selvaggia.
Paolini
racconta del patto che l'uomo ha stretto con i lupi: noi facciamo il
fuoco per te se tu diventi nostro alleato contro la natura
indiscriminata.
L'intelligenza
dell'essere umano non ha quasi mai la meglio contro l'aggressività
cieca e istintiva dell'animale, che spesso per furbizia sembra
assumere connotati umani che lasciano spesso di stucco i
protagonisti. È stato bello per due ore pensare che l'uomo non è
sempre padrone del mondo e ci sono situazioni in cui non possiamo
ancora vincere.
Le
tre storie sono ambientate ai tempi della corsa all'oro, in Canada e
nelle terre dei ghiacci e dell'inesplorato grande nord. Dove l'uomo,
abbandonato dalla comodità di una civiltà in cui è padrone, si
trova anch'esso schiavo di errori dati dalla paura e dai più
animaleschi istinti, che spesso gli costano la vita.
La
capacità narrativa dell'autore non si smentisce neanche in questo
spettacolo, non lascia allo spettatore neanche un minuto per chiudere
gli occhi e lasciarsi coccolare dalle luci soffuse del teatro. La
suspance e l'ironia sono poste sempre al posto giusto in modo che si
cerchi di non perdere una sola parola del discorso, mentre la musica
originale di Lorenzo Monguzzi, Angelo Baselli e Gianluca Casadei
accompagna perfettamente la narrazione.
La
prima storia è divertente, parla di un cane disastroso, incapace di
trainare una slitta, di stare nel branco. Una piaga per i due
esploratori perchè mangia le loro provviste ed è impossibile da
ammaestrare. Sembra prendersi gioco di loro quando fanno di tutto per
liberarsene e lui ogni volta torna da loro. Non riescono neanche a
ucciderlo per via della sua aria troppo innocente.
Il
narratore non manca mai, in ogni storia, di riferire a chi ascolta il
pensiero del cane, che nonostante i suoi mezzi limitati è sempre più
sveglio, più intelligente e furbo e si fa in continuazione beffe
dell'uomo incapace e “privo di immaginazione”, provando nei suoi
confronti quasi sempre pena e compassione.
Il
secondo racconto è drammatico, narra una storia di un odio
sconfinato e “a prima vista” tra un uomo burbero e solo e il suo
cane chiamato Bastardo, scelto perchè più brutto, tra una
cucciolata di cani belli. Addestrato fin da subito con violenza, reso
sempre più brutto e cattivo dalle percosse del padrone. Nonostante
questo l'uomo non è mai superiore al cane, perchè questo aspetta e
medita una vendetta e continua a covare verso il suo padrone un odio
sconfinato, come se l'odio fosse l'unico sentimento di cui il cane
fosse capace. Anche il padrone disprezza il suo cane, ma nel momento
dello scontro finale si rende conto di quanto in realtà l'odio per
quell'animale sia la sua unica ragione di vita e l'unica cosa che lo
fa alzare la mattina, la speranza un giorno di poter domare
quell'animale.
Lo
spettatore in ogni racconto parteggia sempre per il cane, è questo
ciò che accomuna lo spettacolo con i racconti di Jack London, ed è
questo che la straordinaria capacità narrativa di Paolini rende
possibile.
Nel
terzo racconto il cane è giudice e spettatore della stupidità e
dall'avventatezza di un giovane uomo che spinto da orgoglio e sfida
personale affronta da solo la natura fredda e selvaggia, quando
chiunque gli aveva consigliato di portare con se un compagno. Il
racconto è in terza persona, il cane e il narratore guardano l'uomo
commettere errori stupidi, ragionare di impulso pentirsi della sua
stupidità e rendersi conto dell'inadeguatezza del suo fisico in un
mondo ostile che la sua specie non ha dominato, invidia la pelliccia
del cane, la sua tranquillità e la sua capacità di adattarsi a quel
clima, mentre la sua unica forza, il suo cervello, è inutile se
schivo della paura se vede che tutto il resto del corpo cede.
Alla
fine i personaggi del cane e dell'uomo si confondono, uno è
intelligente e furbo, capace di compassione, di odio e di beffa,
mentre l'altro è solo e abbandonato e muore per mancanza di cibo,
per mancanza di una casa, sul bordo di una strada.
È
qui che la riflessione dell'autore arriva, inaspettata e tagliente,
sul quarto, breve e drammatico racconto di un uomo, un emigrato,
arrivato in Italia per cercare fortuna che muore per il freddo,
dimenticato sul bordo di una strada. L'uomo aveva con se un taccuino,
dai cui appunti è tratta la canzone di chiusura composta da Lorenzo
Monguzzi, in cui l'uomo paragona se stesso ad un povero cane.
L'autore
interagisce con il pubblico, dando continuamente giudizi sulla sua
opera, sui suoi racconti, domandando pareri e opinioni a spettatori
sempre partecipi e ammirati, rapiti da un solo uomo che racconta
immobile, come da un film in 3D al cinema.
E
alla fine Marco Paolini conclude, quello che a mio parere è uno
spettacolo per cui comprerei addirittura un posto in platea,
rassicurando il pubblico sul fatto che anche lui ha, in ogni
racconto, sempre parteggiato per il cane.