mercoledì 7 maggio 2014

Recensione “Ballata di uomini e cani” di Marco Paolini “Tu fai il fuoco e io non ti azzanno”


“Ballata di uomini e cani” è il titolo dell'ultima opera di Marco Paolini, che nel sottotitolo specifica il suo omaggio allo scrittore per ragazzi Jack London, che come lui ricorda nelle prime battute, affronta spesso tematiche che hanno poco a che fare con il mondo dell'infanzia. Siamo quelli di “zanna bianca” o quelli de “il richiamo della foresta”? La risposta non è importante perché le tre storie raccontate nel corso del suo monologo hanno poco a che fare con i due romanzi dell'autore inglese, se non per il fatto che affrontano il tema del rapporto tra un cane e il suo padrone.
Non si tratta neanche delle solite storie melense su quanto il cane sia il migliore amico dell'uomo e su quanto ci voglia bene, non racconta del cagnolino fragile ma con un cuore coraggioso che si butta nel torrente per salvare il suo padrone dall'annegamento. Le storie che il genio del teatro racconta sono di odio, di rancore e trattano della continua guerra tra l'uomo e la natura selvaggia.
Paolini racconta del patto che l'uomo ha stretto con i lupi: noi facciamo il fuoco per te se tu diventi nostro alleato contro la natura indiscriminata.
L'intelligenza dell'essere umano non ha quasi mai la meglio contro l'aggressività cieca e istintiva dell'animale, che spesso per furbizia sembra assumere connotati umani che lasciano spesso di stucco i protagonisti. È stato bello per due ore pensare che l'uomo non è sempre padrone del mondo e ci sono situazioni in cui non possiamo ancora vincere.
Le tre storie sono ambientate ai tempi della corsa all'oro, in Canada e nelle terre dei ghiacci e dell'inesplorato grande nord. Dove l'uomo, abbandonato dalla comodità di una civiltà in cui è padrone, si trova anch'esso schiavo di errori dati dalla paura e dai più animaleschi istinti, che spesso gli costano la vita.
La capacità narrativa dell'autore non si smentisce neanche in questo spettacolo, non lascia allo spettatore neanche un minuto per chiudere gli occhi e lasciarsi coccolare dalle luci soffuse del teatro. La suspance e l'ironia sono poste sempre al posto giusto in modo che si cerchi di non perdere una sola parola del discorso, mentre la musica originale di Lorenzo Monguzzi, Angelo Baselli e Gianluca Casadei accompagna perfettamente la narrazione.
La prima storia è divertente, parla di un cane disastroso, incapace di trainare una slitta, di stare nel branco. Una piaga per i due esploratori perchè mangia le loro provviste ed è impossibile da ammaestrare. Sembra prendersi gioco di loro quando fanno di tutto per liberarsene e lui ogni volta torna da loro. Non riescono neanche a ucciderlo per via della sua aria troppo innocente.
Il narratore non manca mai, in ogni storia, di riferire a chi ascolta il pensiero del cane, che nonostante i suoi mezzi limitati è sempre più sveglio, più intelligente e furbo e si fa in continuazione beffe dell'uomo incapace e “privo di immaginazione”, provando nei suoi confronti quasi sempre pena e compassione.
Il secondo racconto è drammatico, narra una storia di un odio sconfinato e “a prima vista” tra un uomo burbero e solo e il suo cane chiamato Bastardo, scelto perchè più brutto, tra una cucciolata di cani belli. Addestrato fin da subito con violenza, reso sempre più brutto e cattivo dalle percosse del padrone. Nonostante questo l'uomo non è mai superiore al cane, perchè questo aspetta e medita una vendetta e continua a covare verso il suo padrone un odio sconfinato, come se l'odio fosse l'unico sentimento di cui il cane fosse capace. Anche il padrone disprezza il suo cane, ma nel momento dello scontro finale si rende conto di quanto in realtà l'odio per quell'animale sia la sua unica ragione di vita e l'unica cosa che lo fa alzare la mattina, la speranza un giorno di poter domare quell'animale.
Lo spettatore in ogni racconto parteggia sempre per il cane, è questo ciò che accomuna lo spettacolo con i racconti di Jack London, ed è questo che la straordinaria capacità narrativa di Paolini rende possibile.
Nel terzo racconto il cane è giudice e spettatore della stupidità e dall'avventatezza di un giovane uomo che spinto da orgoglio e sfida personale affronta da solo la natura fredda e selvaggia, quando chiunque gli aveva consigliato di portare con se un compagno. Il racconto è in terza persona, il cane e il narratore guardano l'uomo commettere errori stupidi, ragionare di impulso pentirsi della sua stupidità e rendersi conto dell'inadeguatezza del suo fisico in un mondo ostile che la sua specie non ha dominato, invidia la pelliccia del cane, la sua tranquillità e la sua capacità di adattarsi a quel clima, mentre la sua unica forza, il suo cervello, è inutile se schivo della paura se vede che tutto il resto del corpo cede.
Alla fine i personaggi del cane e dell'uomo si confondono, uno è intelligente e furbo, capace di compassione, di odio e di beffa, mentre l'altro è solo e abbandonato e muore per mancanza di cibo, per mancanza di una casa, sul bordo di una strada.
È qui che la riflessione dell'autore arriva, inaspettata e tagliente, sul quarto, breve e drammatico racconto di un uomo, un emigrato, arrivato in Italia per cercare fortuna che muore per il freddo, dimenticato sul bordo di una strada. L'uomo aveva con se un taccuino, dai cui appunti è tratta la canzone di chiusura composta da Lorenzo Monguzzi, in cui l'uomo paragona se stesso ad un povero cane.
L'autore interagisce con il pubblico, dando continuamente giudizi sulla sua opera, sui suoi racconti, domandando pareri e opinioni a spettatori sempre partecipi e ammirati, rapiti da un solo uomo che racconta immobile, come da un film in 3D al cinema.
E alla fine Marco Paolini conclude, quello che a mio parere è uno spettacolo per cui comprerei addirittura un posto in platea, rassicurando il pubblico sul fatto che anche lui ha, in ogni racconto, sempre parteggiato per il cane.